Di recente ero alla ricerca di un libro particolarmente difficile da scovare, un manuale che volevo assolutamente leggere, su Amazon non si trovava, quindi ho deciso dunque di uscire e andare in biblioteca per scovare il volume di cui avevo bisogno.
Era tantissimo tempo che non mi capitava di recarmi in uno di questi spazi per giovani studiosi e posso dirlo con tranquillità, non è stato bello.
Ho chiacchierato con un ragazzo molto in gamba alla scrivania esterna, che mi ha guidato tra gli scaffali, portato in un ripiano molto nascosto, dove ho trovato l’antico libro che andava portato in salvo.
Mi sono sentito un Indiana Jones moderno, un esploratore di tesori nascosti, e, quando ho visto il volume polveroso, ho accarezzato con la punta del dito la sua copertina.
A quel punto una luce in fondo alla caverna ha rivelato tutto ciò che si trovava intorno a me, facendomi notare i sarcofagi dei faraoni mummificati che mi circondavano dovunque.
Ok, mi sono fatto prendere la mano, ma non ho del tutto esagerato.
Quando ho preso il libro e, soddisfatto, ho fatto per andarmene, ho alzato la testa e mi sono reso conto di essere davvero attorniato da mummie, o da qualcosa di molto simile.
File e file di banchi infatti erano riempite da ragazzi chini, ingobbiti e immobili, con la testa su grossi libri.
Non scherzo, i tavoli si estendevano quasi a perdita d’occhio, era uno spettacolo piuttosto inquietante nel complesso.
Nessuno di loro ovviamente si rendeva conto di cosa stesse facendo il suo vicino, ma da una prospettiva diversa, la mia in questo caso, il tutto aveva un che di inquietante.
Immagina questo: fuori c’è il sole, e decine e decine di ragazzi trascorrono, come mummificati, il loro tempo su pagine di informazioni da ricordare a memoria, per poterle esporre a un professore distratto e noncurante, prendere un voto e dimenticare tutto una volta finito quel supplizio.
Ti ricorda qualcosa?
In quel preciso momento mi sono chiesto:
Ne vale la pena per loro? Sprecare gli anni migliori della propria vita su un tavolo, seduto ad una sedia scomoda, ha davvero senso?
Qualche tempo fa ho scritto un post nella pagina Facebook dove i nostri studenti condividono i loro risultati, le difficoltà incontrate, come le hanno superate e via dicendo.
La pagina insomma dove tutti coloro che sono stanchi di andare avanti a studiare a casaccio si ritrovano per uscire dal tunnel in cui l’università li ha rinchiusi, il gruppo nel quale puoi entrare anche tu se sei disposto a metterti in gioco e ottenere risultati migliori, per farlo vai su https://www.facebook.com/groups/sistemadistudio/.
Ma sto andando fuori strada, dicevo, ho scritto un post in cui parlavo di un mito della cultura giapponese, una specie di leggenda metropolitana al limite fra storia e fantasia.
E mentre guardavo quei ragazzi seduti in fila uno dietro l’altro, ho pensato che non c’è esempio migliore di quella storia per capire quanto sacrifichi ogni giorno in nome di un ideale.
È la storia di un tenente giapponese, di una vita sacrificato, di onore e delusione, ma procediamo con ordine.
Negli ultimi mesi del 1944, dopo quasi un decennio di guerra, le sorti del Giappone si stavano rovesciando.
La sua economia era alla deriva, l’esercito sparpagliato per mezza Asia e i territori conquistati in tutto il Pacifico stavano cadendo come tessere di domino sotto le forze statunitensi.
La sconfitta sembrava inevitabile. Fine della storia. “Gli americani arrivano, spazzano via tutto e i giapponesi se ne tornano a casa per manifesta superiorità del nemico con la coda tra le gambe“.
Questo avranno pensato in molti, ma se hai visto anche solo un film sui samurai sai benissimo che i giapponesi non si arrendono.
Il 26 dicembre 1944, il secondo tenente Hiroo Onoda dell’esercito Imperiale Giapponese fu inviato sull’isola di Lubang nelle Filippine.
Aveva l’ordine di rallentare il più possibile l’avanzata statunitense, di mantenere la posizione, e, proprio come un vero giapponese, non arrendersi mai. Cliché a parte, sia lui che il suo comandante sapevano che si trattava di una missione suicida.
Un po’ come dare Analisi II, Diritto Privato, Lingua Tedesca II o Anatomia, quelle cose lì che non auguri nemmeno al tuo peggior nemico.
Nemmeno alla signora del quinto piano che cammina con i tacchi alle 3 di notte, no, nemmeno a lei.
Nel febbraio del 1945 le cose cambiarono di nuovo, arrivarono gli americani, si impadronirono della città dove si nascondeva Onoda e la presero con la violenza.
Ma il nostro eroe riuscì a nascondersi nella giungla e da lì iniziò una campagna di guerriglia contro le forze statunitensi e la popolazione dell’isola.
Quando sei mesi più tardi, dopo l’esplosione delle terribili bombe che segnarono la fine della guerra, il Giappone si arrese, migliaia di soldati erano ancora lì e tra loro c’era anche Onoda.
Ma mentre piano piano, giorno dopo giorno i soldati giapponesi tornavano in patria, Onoda rimase lì. Volarono volantini dal cielo annunciando la fine della guerra, ma lui non ci credette pensando fosse un piano degli americani, e rimase lì a compiere atti di guerriglia da solo per l’onore della patria.
Passarono 5 anni, la maggior parte delle truppe era rientrata da un pezzo, ma non Onoda, lui continuò ad attaccare, uccidere bestiame ed isolani, fedele al suo pensiero.
Altri volantini dal cielo… niente, non era vero, lui doveva rimanere lì. Rimase attaccato a un’idea, forte e nobile anche in un certo senso, ma pur sempre folle e soprattutto errata.
Rimase su quell’isola 28 anni
In cui si nutrì di bacche, cibo saccheggiato, in cui visse per terra, fra i boschi, nella sterpaglia, senza un letto, una casa, delle lenzuola sul corpo la notte.
Eppure, non si spostò da lì, nulla pareva smuoverlo.
Aveva deciso di sacrificare la sua vita in nome di un ideale più grande, in nome di una battaglia d’onore, in nome di valori ben stampati nel suo cuore.
Ti ricorda qualcosa? Magari la tua gioventù sacrificata in nome di una carriera brillante che ti consenta di aiutare gli altri?
Non intendo giudicare l’effettivo valore dello scopo che perseguiva, né dire che i giapponesi erano buoni mentre gli americani brutti e cattivi, niente di tutto ciò mi interessa.
Il punto è un altro.
Stai sprecando gli anni migliori della tua vita!
Esiste un mito, un’idea, secondo la quale gli anni migliori della vita siano quelli che vanno dai 18 ai 25 anni, le persone sono convinte siano gli anni più belli, quelli in cui il corpo è al massimo splendore, in cui tu sei pieno di energie, gli anni in cui si ha la forza di divorare il mondo, uno splendido futuro davanti e un passato non ancora troppo pesante da portarsi dietro.
Anni in cui rimpianto e rimorso non trovano poi molto spazio, e ogni esperienza ne segue un’altra e poi un’altra ancora e in cui costruisci le basi del futuro che verrà.
Dopo viene l’età adulta, dove le scelte hanno un peso diverso, un’importanza significativa e comportano un dolore tutto nuovo, fatto di “se” e di “ma”.
Non so se la gioventù sia davvero il periodo più roseo della tua vita, penso che tutto cambi in relazione al singolo, ma una cosa è vera: il tuo corpo è pieno di forze, che puoi anche dimenticarti superati i 30.
Non c’è niente da dire, diventiamo più stanchi, più fiacchi, meno propensi al cambiamento; penso che sia da questa mutazione fisica unita alla possibilità di sbagliare senza subirne completamente le conseguenze, che derivi l’idea che questi siano gli anni migliori.
La verità però è che questi anni li passi di norma sui libri, in lavoretti serali stancanti per mantenere un’università che non sembra finire mai.
Sono giornate che trascorri al chiuso di camera tua, o della biblioteca, se proprio ti va bene, e ti trovi a studiare con gli amici, agognando le pause caffè come se fossero una dose di droga, l’unico spiraglio di chiacchiera e spensieratezza in ore ed ore trascorse al buio di una sala studio.
E poi ti ritrovi più vecchio, più grasso, a riguardare le foto di quella gioventù, domandandoti come diavolo hai trascorso tutti quegli anni.
La sto mettendo giù tragica, lo so, ogni tanto una birra te la bevi, hai ragione, magari pensando per tutto il tempo al capitolo che dovresti finire, ma la bevi.
Quando si parla di sacrifici, tutti si domandano sempre la stessa cosa: ne vale la pena?
“Sì, Giacomo si sta sbattendo un sacco, ma sarà un grande medico”
“È vero Federica non esce quasi mai di casa, ma vuole fare il magistrato, è un grande sogno quello”
“Sì Maria Piera Giuseppina passa il suo tempo in laboratorio, ma per un essere una biologa ci vuole, non c’è altro da dire”
La scelta sembra essere sempre la stessa:
1.Essere un grande “qualcosa”, ottenere risultati incredibili, trascorrendo questi anni in un turbine di fatica e ansia, per arrivare un giorno a un risultato incerto.
2.Godersi la gioventù, il qui ed ora, il presente splendente che hai davanti, per poi alzarti un giorno e capire che è troppo tardi per studiare, troppo tardi per seguire la tua strada e che avresti dovuto impegnarti di più quando ne avevi la capacità.
È tutto qui?
Non hai altre alternative per passare un esame?
Esiste una terza, fondamentale opzione da prendere in considerazione per evitare di rinunciare ai tuoi obiettivi o passare gli anni migliori a tormentarti su pagine e pagine di manuali
Sono sogni bellissimi, che valgono tanto, certamente, ma la domanda a questo punto non è più: “vale la pena?”, ma “è necessario”?
È necessario sprecare gli anni migliori della tua vita? Quelli che non torneranno mai più? Quelli in cui sei pieno di energie, di carisma, di voglia di fare, è necessario passarli sui libri?
Chiuso in una stanza nella quale non distingui più se è giorno o notte?
Perdere le vacanze? Le feste? La possibilità di viaggiare? Di fare sport? Di provare l’amore come lo si prova solo a 20 anni?
La risposta, l’avrai intuita da te, è NO, e non sono io a dirlo, ma una delle tante studentesse che ha capito l’importanza di avere un sistema di studio:
Non serve, non è necessario, non ti obbliga nessuno.
Puoi raggiungere quell’obiettivo e diventare un grande medico, interprete, biologo, giudice e chi più ne ha più ne metta, SENZA sprecare intere giornate.
Come?
Onoda per capire che stava sacrificando la sua intera vita inutilmente avrebbe dovuto afferrare il volantino che pioveva dall’aereo, leggerlo e credere nelle parole scritte lì.
Non l’ha fatto perché per lui le parole di altri non contavano nulla. Sai quando è tornato in patria? Quando finalmente si è arreso?
Quando un ragazzo, di nome Norio Suzuki, decise di volare nelle Filippine e raccontare al vecchio tenente come stavano davvero le cose, come il Giappone si era trasformato, come la guerra fosse finita, e che cosa fosse accaduto in quegli anni.
Questo serviva, un connazionale, uno come lui, che parlasse la sua lingua, che condividesse la sua terra d’origine.
Lo stesso vale per te, non è un volantino, non piove da un aereo, ma sono comunque parole, che trovi qui: www.genioin21giorni.it/corso , dentro c’è tutto quello che ti serve per capire come smettere di buttare via ore ed ore in nome del tuo sogno.
Quello che la storia del tenente mi ha insegnato è che le mie parole sarebbero inutili, per questo lì trovi le opinioni di ragazzi proprio come te, studenti che non riuscivano a sopportare l’ansia degli esami, che non avevano la media che desideravano per quanto s’impegnassero.
Vere e proprie mummie che si sono svegliate dal loro sonno e hanno ripreso a vivere, ottenendo nel frattempo tutti i risultati che desideravano.
Se vuoi sapere come hanno fatto, devi andare qui: www.genioin21giorni.it/corso.
Ah Onoda quando è stato salvato è tornato in Giappone e ha scoperto che era stato tutto vano, è caduto in una depressione profondissima, guardando indietro agli anni trascorsi a soffrire inutilmente.
Sei certo di voler subire lo stesso destino?